di Mario Bozzi Sentieri
Interessano ancora a qualcuno i destini del nostro acciaccato sistema democratico? La domanda ci viene spontanea di fronte alle percentuali dell’astensionismo al voto, rese drammatiche dalle ultime votazioni per l’elezione del Presidente della Regione Liguria, dove solo il 46% degli elettori è andato alle urne (per cui il vincitore, Marco Bucci, candidato dal centrodestra, risulta espressione del 22,41% degli aventi diritti e l’opposizione di sinistra, uscita sconfitta, è ancora – di fatto – meno rappresentativa). C’è chi ha spiegato il calo dei votanti con l’emergenza meteo, con la scarsa pubblicità data al voto regionale, con l’inutilità di scegliere uno schieramento politico piuttosto che un altro. Qualcuno è perfino arrivato a dire che – in fondo – il calo dei votanti è un fatto fisiologico nelle democrazie mature. Cosa ci sia di “maturo” nell’astensionismo francamente ci sfugge, laddove invece l’espressione di un diritto, qual è appunto il voto, dovrebbe essere il segno più alto di un sistema che si regge formalmente sulla “sovranità” del popolo, “che la esercita – come recita il primo articolo della Costituzione – nelle forme e nei limiti” dati. Sia chiaro: dei limiti e delle debolezze del sistema democratico sono pieni gli scaffali. Nel passato si trattava comunque di analisi e polemiche dottrinarie, rispetto alle quali la risposta astensionista era minoritaria. A rendere del tutto particolare l’attuale stagione sono le ragioni della crisi sistemica e la rottura dell’equilibrio sociale e generazionale. Un tempo votare significava trovare motivazioni per un riscatto sociale variamente declinato, mentre per i giovani l’accesso al voto sanciva una raggiunta maturità civile. Oggi il quadro di riferimento è completamente mutato. Secondo quanto emerge dall’analisi di Swg (pubblicata da “Italia Oggi”) sul voto in Liguria, a scegliere di non votare sono stati soprattutto i più giovani, tra i 18 e i 34 anni, e le persone in condizioni economiche difficili. Nel ceto medio c’è stato un equilibrio nel voto, mentre la stragrande maggioranza degli elettori con una condizione economica difficile (l’80%) ha disertato le urne. I più giovani si sono orientati maggiormente sul candidato del centrosinistra, Andrea Orlando. Bucci, invece, è prevalso nettamente nelle fasce d’età 25-34 e 45-54 anni e solo di misura tra chi ha più di 54 anni. Che cosa manca – in generale – per “motivare” al voto? E’ l’onda lunga del liberal-liberismo (considerato democratico per antonomasia) ad avere messo in crisi il sistema rappresentativo democratico, a partire dagli Anni Novanta del ‘900, sfarinando le vecchie appartenenze ideologiche (non solo il comunismo sfasciatosi nel 1989) e quindi la capacità di rappresentanza dei partiti politici (marchiati come strumenti della “casta”). Un tempo la critica nei confronti delle istituzioni democratiche si focalizzava sullo strapotere delle segreterie dei partiti, sul gregarismo ideologico, sulla denuncia dell’occupazione partitocratica dello Stato, con il conseguente controllo del cosiddetto sotto governo e dell’amministrazione pubblica, correlata alla corruzione diffusa. Oggi paradossalmente è l’indebolirsi della mediazione dei partiti, a vantaggio di una visione deideologizzata dell’azione politica, che ha ridimensionato la partecipazione popolare alla vita pubblica e di conseguenza il potere del popolo sovrano, ormai ridotto ad essere (sulla scena elettorale) una mera comparsa piuttosto che il protagonista principale. La denunciata crisi “di sistema” (con il conseguente astensionismo) passa attraverso questi percorsi, segnati dall’apatia (impolitica) delle opinioni pubbliche, dallo sbiadirsi delle distinzioni (un tempo “dottrinarie”). A fare da sfondo una “democrazia recitativa” nella quale il “demos” appare presente solo al momento del voto (ridotto ad una sorta di sondaggio su larga scala), per essere subito dopo messo da parte o più spesso per mettersi esso stesso da parte. Vince l’individualismo e a venire meno è la democrazia nel suo senso più profondo e compiuto, la democrazia, vissuta come “partecipazione di un popolo al proprio destino” – per dirla con Arthur Moeller van den Bruck, segno di una politica vissuta come aspettativa collettiva sul piano dei valori civili ed insieme come buona amministrazione. Siamo al “commissariamento della politica” prodotto del minimalismo culturale e del trionfo di quelli che Max Weber definiva i “partiti di patronato”, fondati sulla spartizione degli uffici pubblici, contrapposti ai partiti basati su “una intuizione del mondo”, portatori cioè di una identità forte? Niente – su questo fronte – è definitivo. Senza volere ripercorrere strade già battute, magari rincantucciandosi nel beato-tempo-che-fu, la responsabilità di chi si sente portatore di “un’intuizione del mondo” è di impegnarsi al fine di coniugare le stringenti, quotidiane domande della gente con quelle “visioni lunghe” che danno il senso di una politica capace di affrontare gli elementi strutturali delle crisi attuali, ponendo delle discriminanti forti, diciamo “di valore”, in grado di rendere plasticamente visibili le ragioni di una scelta e su queste attivando il coinvolgimento popolare. La sfida “democratica” passa, oggi, attraverso una nuova coscienza collettiva ed un’aspettativa ricostruttiva, in grado di “promuovere l’interesse del Popolo all’opera del proprio ordinamento costituzionale” – come ebbe a scrivere, agli albori della Repubblica, Carlo Costamagna. Si tratta di una battaglia culturale necessaria per qualsiasi azione politica. Da qui può nascere un’autentica spinta in grado di “riconciliare” la grande massa dei cittadini con il diritto-dovere del voto. Bisogna però crederci ed impegnarsi di conseguenza, magari individuando nuovi strumenti di rappresentanza/partecipazione.